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Intro

Il termine Yoga è ormai usato, e a volte anche abusato, in tutto l’Occidente. Esso deriva dalla radice sanscrita -yuj, che significa unire, aggiogare, soggiogare, governare e indica un insieme di pratiche psicofisiche orientate all’unificazione e alla relazione armonica tra le diverse componenti della personalità umana: corpo, emozioni e facoltà intellettuali; ma anche, e soprattutto, alla riscoperta della dimensione del Sé, dell’Essere. 

Il termine yugà si riscontra già nel più antico dei Veda, il Ṛgveda, composto fra il 2000 e il 1100 a.C., con il significato di “giogo”; da qui il significato, posteriore, di Yoga come insieme di tecniche, anche meditative, aventi come scopo l’unione con la realtà ultima e tese a governare i sensi. Se dunque nel Ṛgveda il termine Yoga ha il compito di suggerire agli uomini di “imbrigliare” i propri sensi, pensieri e vissuti, per dedicarsi alle attività spirituali, nelle successive Upanisad vediche tale termine inizia ad avere dei significati più precisi e tecnici: nella Katha Upanisad il termine Yoga compare per la prima volta, affermando:

 «Il saggio, in seguito alla realizzazione dello yoga individuale (adhyatma yoga), avendo contemplato [in sé] il Dio che è difficile da vedere, che è sprofondato nel mistero, che giace nel cuore, che è riposto nella cavità, che è l’antico, abbandona il piacere e il dolore.»

Nella successiva Svetasvatara Upanisad inizialmente lo Yoga è descritto come disciplina meditativa capace di realizzare la śakti, la potenza stessa divina, mentre nel secondo canto troviamo descrizioni sia di carattere tecnico, sia riguardanti i segni che contraddistinguono il percorso dello yogin:

«A questo punto, avendo controllato i suoi soffi vitali e trattenuto il moto del respiro, allorché il Prana è raffrenato, espiri dal naso; come colui che conduce un veicolo trascinato da cavalli cattivi, così pure il saggio trattenga la sua potenza mentale senza distrarsi.» 

Vi compaiono dunque precisi accenni al controllo della respirazione, collegata al Prana, il principio vitale, inteso come soffio, e al dominio dell’attenzione, inteso come capacità di non essere distratto, quindi di concentrarsi. 

Nella Maitri Upanisad invece troviamo la più antica suddivisione dello Yoga in anga (lett.: “braccia”, “membra”): pranayama (controllo della respirazione); pratyahara (ritrazione dei sensi); dhyana (meditazione); dharana (“connessione profonda”); tarka (“pensiero”, “ragionamento”); samadhi (concentrazione).

Nella Bhagavadgita, libro essenziale per le conoscenze filosofiche yogiche, composto fra il XVIII e il XIX secolo, il termine Yoga compare spesso, inteso nel senso di condotta di vita, via o percorso verso il divino e quindi verso la liberazione. La molteplicità di questi cammini che Krsna presenta ad Arjuna costituisce l’insieme delle vie dello Yoga e fra queste rivestono maggior importanza il Karma Yoga, la via dell’azione sacralizzata; il Jnana Yoga, la via della conoscenza spirituale; il Bhakti Yoga, la via dell’abbandono devozionale a Dio; il Dhyana Yoga, la via della meditazione. 

La prima grande opera indiana che descrive e sistema le tecniche dello Yoga, è lo Yoga Sutra redatto da Patanjali, vissuto nel V sec d.C., che raccoglie 196 sutra, frasi brevi, aforismi pregni di significato. 

Lo Yoga Sutra è suddiviso in quattro sezioni dette pada: Samadhi Pada (la “congiunzione”), in cui si introduce e si illustra lo Yoga come mezzo per il raggiungimento del Samadhi, lo stato di beatitudine per arrivare alla liberazione, Moksa, dal ciclo delle rinascite, il Samsara; Sadhana Pada (la “realizzazione”), in cui si espone l’Ashtanga Yoga, noto anche come Raja Yoga o Yoga integrale, evidenziando le otto membra dello Yoga per raggiungere l’illuminazione, che sono:

  1. Yama. Il controllo, composto da cinque cose da evitare: ahimsa (non violenza), setya (verità benevola), asteya (non rubare), brahmacarya (continenza sessuale), aparigraha (astensione del superfluo).
  2. Niyama. Le osservanze, i cinque comportamenti da adottare: Shaocha (Igiene, pulizia del corpo e della mente, tramite le Kriya), Santosha (Serenità, equanimità), Tapas (Austerità, la meditazione, il digiuno, la pratica quotidiana), Swadhyaya (lo studio del Sé e delle scritture yogiche), Ishwarapranidhana (Abbandono alla volontà di Dio e devozione).
  3. Asana: le posture, le posizioni, che il corpo assume per prepararsi alla pratica meditativa. Imparare a gestire il proprio corpo significa saper gestire la propria mente e avere un corpo calmo significa avere una mente calma.
  4. Pranayama: Tecniche respiratorie per controllare l’energia vitale attraverso il respiro. Prana infatti è l’energia vitale e Yama il controllo.
  5. Pratyahara: la ritrazione dei sensi, la ritrazione della mente dal mondo esterno, dal corpo e dagli strati più esterni della mente stessa, per arrivare alla Pura Coscienza. L’obiettivo è quello di mantenere una mente equilibrata e pacifica.
  6. Dharana: la concentrazione, l’imparare a mantenere la mente focalizzata.
  7. Dhyana: la contemplazione, durante la meditazione, 
  8. Samadhi: l’unione. Sama significa uguale e Adhi origine del tutto. Si raggiunge lo Yoga dell’unione. Chi contempla, l’oggetto contemplato e l’atto della contemplazione si fondono, provando l’esperienza della fusione con il tutto.

Le seconde Pada sono: Vibhuti Pada (i “poteri”), in cui Patanjali descrive i poteri sovraumani che il praticante può raggiungere con la pratica dello Yoga e Kaivalya Pada (la “separazione”), in cui tratta il lato filosofico dello Yoga, affermando che è il Samadhi che consente di riconoscere la separazione fra spirito, Purusa, e materia Prakrti. Tale separazione è chiamata Kaivalya.

Kaivalya, Purusa e Prakrti, insieme ad altri, sono termini del pensiero del Samkhya, scuola sistematizzata dal filosofo indiano Isvarakrsna intorno al IV secolo a.C., ma di origini ben anteriori. Patanjali lo “adotta” e su di esso fonda il suo Yoga, coniugando così due fra le tradizioni più antiche del mondo indiano, quella filosofica del Samkhya e quella mistica dello Yoga.

Più nello specifico il Samkhya postula l’esistenza di due principi eterni e inconciliabili: il Purusa, puro spirito frammentato, testimone inattivo dell’incessante evoluzione della Prakrti, il secondo principio, ossia la materia concepita come ente, da cui deriva ogni aspetto della realtà fisica, materiale e mentale. Sebbene distinti, tra tali due principi si esercita normalmente un’influenza, causa dell’evoluzione del cosmo e della sofferenza umana: da un lato il Purusa, che non possedendo la facoltà di agire si lascia illudere dalla Prakrti, attribuendosi un dinamismo che gli è estraneo; dall’altro lato la Prakrti, che nel suo prodotto più evoluto, cioè il Citta (la coscienza), si erge, illudendosi d’essere altro dalla materia stessa. La confusione originata da tale ignoranza condanna l’essere umano a reincarnarsi dopo la morte, in un ciclo infinito di rinascite: il Samsara. 

La liberazione da questo ciclo è possibile, secondo Patanjali, soltanto riconoscendo gli aspetti autentici del Purusa e della Prakrti, e quindi il loro stato di effettiva separazione, il Kaivalya. Ciò può riuscire solo alla Prakrti stessa, nella sua forma più complessa: Citta, la coscienza. L’insieme delle funzioni mentali consce e inconsce deve liberarsi da tutto ciò che le oscura e le agita, da quelle agitazioni che Patanjali chiama Vrtti. E questo altro non è se non il fine dello Yoga:

«yogaś citta vrtti nirodhah» 

(«Lo yoga è la soppressione dei movimenti della coscienza.»)

Resa quieta la coscienza, questa può finalmente riconoscere lo spirito quale testimone non vincolato, libero, inattivo e trascendente. Quando ogni essere senziente si sarà così liberato, la Prakrti si riassorbirà in sé stessa e tutto tornerà nello stato primordiale.

A seguito della colonizzazione inglese dell’India lo Yoga si è lentamente diffuso in Occidente, mentre a partire dal 1920 alcuni Yogi come Yogananda e Vivekananda cominciarono a diffondere gli insegnamenti yogici in America. In particolare in India Krsnamacharya, uno yogi con grande esperienza e molta passione per la parte fisica dello Yoga, venne ingaggiato dal Maharaja di Mysore come trainer delle guardie del palazzo reale e, osservando i militari inglesi durante gli allenamenti, sviluppò un nuovo modo di praticare. Tra i sui discepoli ritroviamo B.K.S. Iyengar e Pattabhi Jois, i quali svilupparono ognuno un proprio stile di pratica, riscuotendo molto successo e popolarità in tutto il mondo: Iyengar Yoga e Ashtanga Vinyasa Yoga.

Con il passare del tempo lo Yoga si è mescolato sempre di più con il fitness, poiché si adatta ai bisogni dell’uomo di ogni tempo. Un buon Insegnante di Yoga deve essere capace di mantenere la mente aperta e il corpo pronto a verificare su di sé gli effettivi vantaggi di un particolare modo di praticare, sapendo discernere ciò che porta avanti la tradizione, rispettandone i principi fondamentali, da ciò che invece si allontana, non meritando di essere chiamato Yoga.

(Fonti: wikipedia, yogafirenze.it, Yoga Sutra).

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